Oggi “metto
a fuoco” lo sguardo di mia figlia Gioia, cinque mesi, il vaccino l’aspetta ed
io vorrei tranquillizzarla. Mi guarda profondamente negli occhi, come a
cercarmi oltre questa mascherina.
La guardo
intensamente e le parlo, la voce è ovattata, il suono camuffato e lei aggrinza
le sopracciglia per cercare di capire. Chi sei tu?
Le faccio
una carezza ma i guanti di lattice ne catturano il calore e il profumo, quello
che lei ama, lo stesso che cerca anche di notte nei nostri dolci momenti.
Metto a
fuoco il suo volto spento, orfana di ogni mio contatto, e focalizzo questo
tempo che ci ha reso privi di identità, come il bollettino del pomeriggio e dei
suoi numeri.
Siamo privi
d’identità, i volti nascosti dietro una mascherina che ne cela le espressioni.
Continuo a
sorridere e lei non vede il mio sorriso, continuo a toccarla e lei non avverte
le mie carezze, questo è il tempo vuoto di affetto, di affetti.
Tutto è
fermo, coperto, digiuno. Il tempo stesso ha perso il suo valore; lo stesso
tempo che in abbondanza ci arricchisce senza poterlo consumare.
Tornata a
casa con lei, ho tolto tutto, ho strappato via guanti e mascherina, tolto il
giubbino e l’ho stretta più forte di come avessi mai fatto, come a recuperare
il tempo perso. Ed ho immaginato che a breve con l'aiuto di Dio tutti noi
faremo così, affamati di normalità.
Torneremo a
sorridere e le pieghe del viso non saranno più nascoste, torneremo a sentire la
profondità di un contatto, la stretta ferrea di un abbraccio.
Torneremo a
guardare il mondo da attori protagonisti e non da spettatori in poltrona, nessuna
finestra sarà l’oblò di un aereo che ci mostra tutto da lontano, i balconi
torneranno ad essere balconi, non palcoscenici e nemmeno stanze aperte per
l’ora d’aria.
Le nostre
case torneranno ad essere traboccanti di presenze, saranno i nostri nidi e non
prigioni bianche.
Ringrazieremo
il cielo per quello spicchio di sole anche timido dietro le nuvole, perché
potremo sentirlo sulla pelle, in un parco, dove i bambini giocheranno di nuovo,
torneranno a spingersi sull’altalena, a passarsi i giochi di mano in mano, a
stringersi più forte dopo aver segnato.
Oggi metto a
fuoco mia figlia e la stessa felicità di sempre, di tornare a giocare con lo
stesso gioco, di guardare dalla solita finestra e di sorridere a suo modo alla
vita.
Osservo la
felicità che avevamo ma che presto tornerà, la stessa che possedevamo già ma
forse eravamo dei “felici asintomatici”.
Emanuela Impieri
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