Celico.
La pioggia lenta sembra lavare via tutto, la disperazione, le ansie, le cattive
abitudini degli uomini. Dalle lenti appannate intravedo uno stormo di rondini
solcare il cielo e danzare a zig zag tra le gocce d’acqua e i cieli grigi. Beate
loro che libere tracciano cerchi nell’aria. Il covid non scalfisce quel moto
ondulatorio e vitale. È primavera, nonostante tutto. Ripensare ai Fori
Imperiali, ai gabbiani che solcano i cieli rosa al tramonto a questo punto è quasi
automatico. Ah, Roma quanto sei bella, in un minuto t’immagino in tutta la tua
magnificenza. Tu sapevi unirci e abbracciarci tutti parlando una lingua
universale, quella della bellezza. Il coronavirus per un attimo si è dileguato.
Puff, è sparito.
Merito della grande
bellezza dell’arte che blocca il flusso del tempo lasciandoci spaesati e allo
stesso tempo così pieni di meraviglia… Il sublime. Ed ecco l’illuminazione.
L’arte poteva essere più che mai un atto rivoluzionario. Ribellarsi alla paura,
alla perdita, alla morte. Un nome inizia con una certa insistenza a farsi
spazio tra i miei pensieri, quello del maestro d’arte Alfredo Granata. Come
supponevo in un continuo e persistente tintinnio di voci sorde era già all’opera
regalandoci nuovi occhi per vedere la realtà oscura e tremolante. In
“responsabile reclusione” aveva lasciato la parola ai suoi pennelli.
Nasce l’opera “Ho smesso di aspettare…” tecnica mista su
tela cm 400 x 300 –marzo 2020 e di conseguenza la mia intervista.
“Ho
smesso di aspettare…” tecnica mista su tela cm 400 x 300 –marzo 2020
“Io sono uno
che sceglie la solitudine. E che come artista si fa carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello. È il mio mestiere”, diceva Fabrizio De André. Maestro, chi è l’artista?
Chi è l’artista ai tempi del covid?
L’artista è un piccolo “insetto” con antenne ipersensibili che captano e
assorbono gli umori della società in cui vive. Ha un compito importante, quello
di trasmettere alle nuove generazioni le attese, le partenze e gli arrivi nel
nostro contemporaneo. In questo periodo particolare, dove si vive in una
precarietà dimenticata da molti e conosciuta da pochi, l’artista tout-court
deve cercare con le proprie opere di documentare, elogiare e lenire le paure di
questo sciagurato anno bisestile. Nel tempo del corona virus gli artisti sono
in prima linea per medicare le ferite dello spirito e della mente messe a dura
prova da un nemico invisibile. L’arte, questa formidabile forza che riesce a
smuovere le montagne e ad abbattere i muri dell’ignoranza, ha il compito di
risollevare e forse di scoprire, l’orgoglio d’appartenenza a una terra antica
tra le più belle e affascinanti al mondo. Anche in questo caso la parola
“medicare” assume una valenza d’importanza fondamentale che diventa, in questo particolare momento, quanto mai necessaria. Come
artista militante non ho sentito molto l’obbligo di una quarantena imposta per
tutelare la salute di chi ci sta vicino. Ho delle abitudini “monacali”, forse
il ricco humus lasciato da un grande rivoluzionario del medio evo, Gioacchino
Da Fiore, continua a rendere fertile e ispirare chi in questo territorio è
nato, è cresciuto e ha lavorato. Per questo rimanevo “chiuso nella mia cella
dorata” con la necessità di creare e oggi, più che mai, continuo a restarci in
modo più consapevole e responsabile, molto più ispirato da una situazione
surreale. In tutto questo rivedo le città metafisiche di Giorgio De Chirico
materializzarsi in modo più contemporanee e realistiche, vestite di nuovi
significati, evocano altre associazioni psicologiche, diventano indicazione
della “terribile solitudine che ci accompagna in questa vita tenebrosa”, evidenziano l’anatomia del dramma e come una sorta di profezia sembrano
dirci che bisogna fermarsi per meditare su quale futuro abbiamo intenzione di
ri-costruire per lasciarlo in eredità alle nuove generazioni.
Il maestro Alfredo Granata all’opera
Una storia bizzarra, come supporto una tela di un
ombrellone da giardino abbattuto dalla furia del vento. Ce ne parli, anzi ora
chiudo gli occhi... Mi racconti la sua opera nei dettagli.
Il lavoro dell’artista è fatto di “corpo” e meditazione e quest’ultima
energia mi ha portato, nella seconda settimana della quarantena, a esprimermi
per dare un corpo alle immagini che rischiavano di implodere. Mi sono accorto
che le piccole superfici non erano sufficienti abbastanza da contenerle e
l’unico supporto di grandi dimensioni a mia disposizione era una tela di un
ombrellone da giardino abbattuto dalla furia del vento. Una superficie di quattro
metri per tre che avrei dovuto buttare ma che consapevolmente ho conservato.
L’ho rispolverata, l’ho posta in verticale all’esterno dello studio e ho
iniziato a dipingerla con un’energia che non avvertivo da qualche tempo. E così, le forti cromie mediterranee dialogano con l’inserimento di
foglie d’oro, un colore che è - citando la poetessa greca Saffo - “Figlio di un
Dio". Nessuna falena o tarlo lo mangiano; egli doma gli esseri mortali, anche i
più forti. Nonché è un doveroso omaggio alle sacre iconografie bizantine sparse
in tutta la Calabria, che incorniciano a loro volta un’immagine azteca dal
forte impatto: Tlazolteotl, la Dea del parto e della fertilità del granoturco
che partorisce mostrando un viso deformato da una smorfia di dolore e che
espelle il figlio in una maniera del tutto inaspettata, poiché il bambino,
venendo alla luce in tal modo, dovrebbe cadere a terra. Ed è proprio la
politica del riavvicinamento alla madre terra che le nuove società del dopo
coronavirus dovrebbero tenere presente in ogni decisione e in ogni performance
politica, culturale e sociale. E poi, ancora, la stessa sagoma della Dea del parto
appare a sinistra del quadro con una cromia di colore nero che sembra non
faccia presagire apparizioni di luce in un futuro immediato. È una sagoma
strana che riporta a posizioni di pipistrelli accovacciati e che mi riporta a
CHROMA di Derek Jarman che a proposito del nero scrive: “Il nero è senza
speranza? Nella notte più nera non c’è sempre una luce? Nel nero sta la
possibilità della speranza. Il nero abbraccia il sonno universale. Un nero
caldo e confortevole. Non il nero freddo, contro il quale l’arcobaleno
risplende come le stelle, ma il nero di cui parla meravigliosamente Ovidio
nelle Metamorfosi… Il nero è sconfinato, l’immaginazione spazia nell’oscurità.
Vividi sogni che attraversano la notte velocemente. Con facce demoniache i
pipistrelli di Goya ridacchiano nel buio”. Nella parte superiore del “grande” lavoro appare una citazione della
scrittrice Megan Gandy che così recita: “Ho smesso di aspettare i treni quando
ho capito che il treno sono io. Chi vuole viaggiare con me troverà sempre
posto, chi non vuole che resti pure in stazione”. È una citazione dal forte impatto emotivo che ho fatto mia e che vorrei
diventasse un monito al richiamo e alla riscoperta della bellezza dell’arte,
unico medicamento capace di sconfiggere l’ignoranza dell’indifferenza e
l’incanto del consumismo. Il virus è presente al centro del quadro, bianco e
fragile come una bolla di sapone, in procinto di esplodere per dileguarsi nel
buio della notte.
Che ne sarà dell'opera finita la quarantena?
Che ne sarà dell'opera finita la quarantena?
La cultura
del dono rende unico un popolo unito. È mia intenzione donare quest’opera a una
struttura sanitaria pubblica che darà la disponibilità ad accoglierla con tutta
la sensibilità del caso per fare in modo che possa richiamare, a futura
memoria, un “metafisico” e surreale periodo della nostra vita.
Da Celico (Cosenza)
Gilda Pucci
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